Ventisette gennaio - Giorno della memoria.
Cosa ricordare.
Qualcuno ancora cerca di ammucchiare i morti: sono tutti eguali. Certo ogni corpo ritorna polvere, ma quello che ci interessa è il modo in cui sono morti e non sono tutti eguali. La cosa spaventosa, che fortunatamente non si è ripetuta, è legare programmaticamente e premeditatamente l’omicidio di milioni di persone al loro essere o meglio a dichiararli non esistenti solo perché portatori di un nome legato ad una loro storica esistenza. Ci sono stati, e ci sono ancora massacri, legati ad un odio razziale molecolare, massacri al machete e all’arma bianca o all’arma da fuoco corta; ci sono stati e ci sono massacri politici, dai gulag sovietici ai quelli di Pol Pot, che imbastivano una finzione di colpa per poter uccidere, ma quello che ha distinto questo immenso massacro è la “banalità del male” che altro non è che la catena di montaggio della morte, le decisioni prese da milioni di persone che ciascuna nel proprio isolamento potevano assolversi da quell’orrendo delitto, potevano convincersi di non vedere ciò che vedevano.
Gli ebrei, i sinti, i rom ed altri gruppi massacrati solo per il nome che portavano non sono dei “privilegiati del massacro”; questo osceno concetto, che continua ad essere espresso da qualcuno – è appunto osceno perché dimostra ancora una volta come la cosiddetta ragione possa generare mostruose proposizioni quando è al servizio dell’odio o del rancore. Queste popolazioni invece danno a noi il privilegio di poter capire qualcosa di fondamentale per la nostra convivenza.
Hanno ragione quelli che puntano la loro attenzione alla prostituzione della lingua e della ragione per costruire il terreno che non tanto porta qualcuno ad agire il razzismo, ma porta alla passività di fronte all’agire degli impiegati della macchina dell’odio.
Hanno ragione quelli che visitano i luoghi del massacro che mostrano ai giovani e a se stessi che questa mostruosa cosa è proprio vera, che ci sono ancora le prove materiali.
Ma noi dobbiamo difenderci da qualcosa di più profondo, da un nemico che è tanto facile incontrare quanto difficile da definire.
Ricordo, come ho già fatto altre volte, la domanda che Tullio De Mauro e Clotilde Pontecorvo che ci hanno posto in varie occasioni, senza poter trattenere le lacrime: che il fascismo e il nazismo sono cresciuti nei paesi più istruiti e colti di quel tempo; la domanda che ponevano a tanti giovani allievi che frequentano con diligenza le nostre scuole era: può la cultura difenderci da questi mostri?
Questa domanda mi accompagna ogni giorno vivendo in un luogo abitato da mostri assassini e rivolgendomi ogni giorno ai giovani di questo luogo, spesso figli di quei mostri, per condividere con loro una cultura di convivenza civile che si è fatta spazio in secoli di storia fronteggiando la violenza e la brutalità.
La mia risposta è che la radice prima della banalità del male è l’anomia sociale diffusa, ossia una forma di individualismo in cui ciascuno è isolato dall’altro e non può fidarsi di nessuno, neppure di se stesso perché l’isolamento dagli altri si realizza quando ciascuno perde il contatto con la propria esperienza esistenziale. Queste persone hanno bisogno di essere dirette da altri, hanno bisogno che si evochi in loro emozioni primitive per spingerli all’azione.
L’odio, il rancore, la rabbia sono emozioni elementari che stendono una coltre oscurante su tutto quanto sia distinto o distinguibile, sulla ragione che è centrata sulla “razio”, ossia la capacità di sezionare, separare, distinguere. La ragione diventa “cattiva” quando è prigioniera e schiava di emozioni violente. Per usare la ragione occorre liberarsi o tenere in sospeso violente emozioni. L’antidoto all’irrazionalità non è dimostrare l’irrazionalità dell’irrazionalità, ma esperienze di vita che rompano l’isolamento, che rompano le maglie dell’odio, della rabbia e della paura che tengono prigioniera la ragione. L’antidoto alla catena dell’irresponsabilità è la responsabilità nelle relazioni e nei legami. La capacità di reazione all’ingiustizia, alla prepotenza, alla violenza non risiede nel coraggio personale, nell’eroico opporsi. Non c’è atto eroico o semplice resistenza che non fondi sulla responsabilità verso i compagni di lotta, le persone che ti accompagnano nella vita, le persone a cui ti sei dedicato.
Quando Janusz Korczak accompagnò i suoi giovani allievi alla camera a gas per entravi lui stesso che poteva salvarsi, non credo che abbia avuto un attimo di esitazione, quella era l’unica cosa che poteva fare. La necessità di ribellarsi e di opporsi all’ingiustizia non viene da una convinzione intellettuale ma da una pratica di vita.
E’ questo il motivo per cui molte manifestazioni e prese di posizione che sono giuste e da condividere sono inefficaci rispetto alla canea crescente. E’ questo il motivo per cui noi Maestri di Strada continuiamo a costruire con pazienza quella conoscenza umana ravvicinata e solidale che è l’unico antidoto alla barbarie.